POLITICAPP | 22 gennaio 2016

Dopo anni di individualismo il ritorno alla comunità

Uscire dal periodo buio. Allontanarsi dal sentimento di oppressione e accerchiamento che ha albergato per otto lunghi anni. Superare rabbia e frustrazione, tristezza, senso di spaesamento e solitudine. Recuperare il senso dello stare con gli altri, della possibilità di costruire e intessere legami (non solo sui social network). Assaporare il calore del dialogo, il pulsare emozionante del condividere, il piacere intimo del sentirsi parte, il gusto di essere se stessi non in un selfie, ma vivendo e facendo esperienze con gli altri.

Gli italiani che guardano al 2016 e agli anni che seguiranno, hanno voglia di comunità. È una dinamica profonda, carsica, che vuole emergere, come un fiume in piena che sgorga dalle viscere della terra. In questo impulso convivono diverse accezioni del sentimento comunitario. Per alcuni l’essenza dell’essere comunità si sostanzia nell’esprimere una cultura, un modo di essere, una tradizione; per altri è il legame con il luogo in cui si vive (città, paese, quartiere). Per altri ancora, è lo scambiarsi delle cose, fare delle esperienze, condividere un destino. Comunque lo si guardi il neo-comunitarismo italico trova arché nel bisogno di nuovi legami, di sentirsi con gli altri, di superare il senso di isolamento, il monadismo shopperista in cui siamo stati gettati nel corso degli ultimi 25 anni. I collanti comunitari odierni (in via maggioritaria) non sono formule generiche, miti del passato, richiami al sangue e all’identità, bensì possibilità pratiche, senso dell’agire e del condividere. Il primo collante si staglia intorno al desiderio di contribuire a uno scopo comune, a ricercare il senso di nel fare cose con gli altri, nel raggiungere insieme un obiettivo. L’aiuto reciproco, il mettere insieme, le tante forme di sostegno orizzontale e scambio (dal baratto, ai gruppi di acquisto, alla sharing): ecco il secondo motore comunitario, con le tante entità in cui si entra e si esce agilmente, con la possibilità per le persone di conoscersi e ri-conoscersi, di sperimentare il valore del con-dividere.



Piccole forme, se si vuole, in cui però cresce ciò che nella contemporaneità è diventato un bene raro e prezioso: la fiducia. Come diceva il filosofo Salvatore Natoli, la fiducia è un “patto emotivo: si dà e si riceve”, essa è la molla per comunità libere e non oppressive.

Il terzo propulsore comunitario, infine, è il bisogno di rafforzare i propri valori, la possibilità di essere parte di un gruppo e avere in comune esperienze e idee, senso e miti, sogni e speranze.

Il bisogno di comunità, di nuovi modi di stare insieme, è l’altra faccia della medaglia della voglia di cambiamento che attraversa il nostro Paese. La brama di svoltare, di mutare corso, di rimettere in moto la macchina Italia, non si esprime, oggi, in un ritorno assordante al rampantismo, al far solo per sé, ma propende verso una realtà sociale capace di arginare gli eccessi dell’egotismo individualistico. Il bisogno di cambiamento racchiude in sé la, latente ed emozionale, presa di coscienza dell’illusorietà dell’individualismo liberale e della sua proclamata sovranità del soggetto. Otto anni di crisi, lo sfarinamento delle certezze e del ceto medio, il futuro in salita che si prospetta ai giovani, ma anche l’esigenza di unire le forze per farcela, hanno messo a nudo, per buona parte della società, il vuoto della promessa individualistica e i danni che essa produce: l’avvantaggiare solo i più forti; l’aprire le porte a una società impersonale, in cui dominano il cinismo e la finanza astratta; il generare una società senza fiducia stabile, senza responsabilità verso l’altro, senza luoghi sociali per le persone. La comunità attesa, non è un territorio mitico, né una nuova ideologia o una religione, bensì la capacità di ogni persona di farsi carico, di sentirsi “con” gli altri. Una comunità, direbbe il filosofo Carlo Sini, come sogno di tutti e di ciascuno, come costruzione dinamica, come civiltà delle relazioni.