POLITICAPP | 12 maggio 2017
La diffusione dell'odio in rete
Il dilagare dello hate speech in social network e blog
L’odio, le espressioni razziste, gli insulti, la violenza verbale in rete sono, purtroppo, una tristissima realtà. Hate speech, lo chiamano gli americani.
Per loro è una categoria giurisprudenziale (e da poco tempo lo è anche in Europa).
Le prese di posizione volgari, offensive, violente, intolleranti e insultanti, sono divenute una pratica diffusa (e impunita), con cui si è trovato a fare i conti regolarmente oltre un terzo dei web surfisti italiani (36%). Un altro 47% ha incrociato, anche se in modo saltuario, contenuti e prodotti mediali che si scatenano contro qualcuno, che insultano e denigrano persone o categorie sociali. Le percentuali rischiano di tradire la portata del fenomeno.
In numeri assoluti parliamo del 40% del Paese: su 30,7 milioni di persone che navigano in rete, 11 milioni si sono imbattute in modo frequente in forme e contenuti che incitano all’odio. Altri 14,5 milioni hanno intercettato, sporadicamente, tali espressioni.
Complessivamente quasi 25 milioni di persone hanno avuto a che fare con post, commenti in blog, cinguettii, immagini, video intrisi di odio, infarciti di violenze verbali, denigrazioni, offese, insulti, espressioni sessiste o razziste ecc.
I dati emergono da una recentissima ricerca realizzata da SWG per conto di Parole Ostili (progetto di sensibilizzazione contro l’ostilità delle parole in Rete e nei media).
La portata del fenomeno si evince con chiarezza dalle valutazioni dei mille internauti intervistati.
Per l’86% delle persone l’odio nel web è un fenomeno esteso (percentuale che sale al 91% tra quanti fanno un uso intenso della Rete) e per l’88% dei web surfisti è una pratica grave e socialmente pericolosa.
A essere maggiormente contrariati e irritati sono i Millennials (91%), seguiti dalla Generazione X (87%) e dai Baby boomers (82%).
La disseminazione di forme di hate speech non è il solo tratto barbarico che incontriamo nel web. Negli ultimi anni abbiamo assistito al fiorire di nuove forme di persecuzione personale: dal cyberbullismo al cyberstalking (con il loro portato persecutorio, di alterazione della vita quotidiana e della serenità delle vittime); dal revenge porn (con la diffusione online d’immagini intime o di rapporti sessuali senza il consenso o per punire una persona), al sexting (l’invio di email, messaggi e altro, con materiali a sfondo sessuale), fino all’infido grooming online (l’adescamento di minori).
Delusione, imbarazzo, paura di fronte alla violenza verbale
Le categorie del male prolificano facilmente e prontamente, avrebbe detto il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Insultare, denigrare, calpestare la dignità delle persone, insidiare e irretire sembra essere diventato uno sport per molti.
Le vittime predestinate delle multiformi valanghe d’insulti sono, ovviamente, le persone più deboli, i soggetti percepiti come diversi, le donne (con l’aggiunta dei politici, per completare l’opera di estrinsecazione della rabbia). Secondo gli internauti nostrani, infatti, le principali vittime d’insulti e attacchi sono i migranti (32%), i politici (30%), i gay (30%), le donne (27%), le minoranze di vario genere (21%) e i musulmani (15%).
Gli argomenti su cui s’innescano, con maggior facilità, dinamiche offensive o denigratorie sono la politica e l’economia (51%), gli immigrati (47%), i temi di sesso e relazioni di coppia (34%), senza dimenticare e sottovalutare la capacità “produttiva” delle tifoserie.
Lo hate speech non lascia indifferenti le persone. A fronte di una quota neanche troppo minoritaria che sorride o sogghigna su determinate manifestazioni d’intolleranza, altri avvertono disagio e fastidio. A metà del Paese (51%) gli insulti e le denigrazioni generano una sofferente sensazione di fastidio (la quota sale al 56% tra i Millennials); al 36% innescano moti di rabbia (42% tra le donne) e al 32% inducono una dimensione di tristezza. Delusione, imbarazzo e, non da ultimo, paura, completano il quadro delle reazioni alle forme di hate speach. Il senso di avversione e il voltastomaco restano fenomeni perlopiù silenti. Non sempre le voci di protesta si levano contro i dispensatori di odio. I fattori che rendono difficile il levarsi delle proteste contro queste forme di aggressione e contro i vari repertori barbarici, sono molteplici.
C’è, sicuramente, la paura di esporsi, di diventare vittime di questi profanatori della convivenza civile. Pesa la sensazione di essere isolati, di non avere il sostegno di provider e gestori dei social network, ma anche dei propri follower.
Conta la tendenziale assuefazione all’odio, all’uso della denigrazione dell’altro, come forma di affermazione di sé. A rendere complessa la reazione, tuttavia, è anche un altro elemento: il profilo standard del novello disseminatore d’odio. Non ci troviamo di fronte a fantomatici personaggi che vivono e operano nell’antro del loro scantinato esistenziale, rannicchiati dietro lo schermo del loro computer, nascosti dall’anonimato della rete.
Dal razzismo alla denigrazione, corre in rete la banalità del male
Ci troviamo, spesso e volentieri, di fronte a persone conosciute. Il 15% dei websurfisti intervistati afferma che nella sua rete di parenti, amici, ci sono persone che creano o divulgano contenuti d’odio.
Stiamo parlando di una platea di 4,6 milioni di soggetti. Un altro 15% testimonia che i disseminatori sono presenti nella sua rete di contatti sui social. I diffusori d’odio hanno, quindi, un nome e un volto. Sono persone che fanno parte della nostra cerchia ristretta, del nostro parco di contatti e follower; sono individui con cui ci s’incontra, si scambiano immagini, foto, commenti; con cui si condividono momenti, racconti e sensazioni personali.
L’arena del web produce condivisione, senso di reticolarità, connessione con gli altri, libertà di espressione, ma genera anche un sentimento d’impunità, uno spazio in cui il senso di civiltà opera a scartamento ridotto. Il web scatena, a volte, il peggio di alcune persone.
Libera la bestia che è in loro; la loro voglia di potenza, il bisogno di sentirsi superiori all’altro, a chi è differente. Dietro lo svolazzare d’insulti e sentimenti d’odio c’è, sovente, un tratto ben più dozzinale: la voglia di esibirsi, di mettersi in scena, di mostrarsi duro e puro. L’insulto, la denigrazione, l’uso di espressioni violente, sessiste e razziste, ci riconducono, tristemente, alla perdurante potenza della banalità del male (per dirla con le parole di Hannah Arendt).
Ci disvelano quella forma perniciosa (purtroppo ripetuta nei secoli) di potenza disumanizzante, che alberga nel quotidiano, nell’essere comune.
Una fisionomia criminale generata dal vuoto delle idee, dai condizionamenti che provengono da frange della società, dalla mediocrità che cerca di uscire dall’anonimato e non trova più confine fra che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. “Nessuno – diceva Nelson Mandela - nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare”.
Un monito che ci aiuta a dare valore e importanza alla necessità di combattere, arginare, isolare i disseminatori di odio. Un compito che non riguarda solo il legislatore e le forze dell’ordine, ma coinvolge e interroga la coscienza di tutti e in primo luogo richiama all’impegno chi gestisce social network, blog o spazi web. La rete è ormai parte del nostro essere civiltà e non può diventare una giungla.
L’odio, le espressioni razziste, gli insulti, la violenza verbale in rete sono, purtroppo, una tristissima realtà. Hate speech, lo chiamano gli americani.
Per loro è una categoria giurisprudenziale (e da poco tempo lo è anche in Europa).
Le prese di posizione volgari, offensive, violente, intolleranti e insultanti, sono divenute una pratica diffusa (e impunita), con cui si è trovato a fare i conti regolarmente oltre un terzo dei web surfisti italiani (36%). Un altro 47% ha incrociato, anche se in modo saltuario, contenuti e prodotti mediali che si scatenano contro qualcuno, che insultano e denigrano persone o categorie sociali. Le percentuali rischiano di tradire la portata del fenomeno.
In numeri assoluti parliamo del 40% del Paese: su 30,7 milioni di persone che navigano in rete, 11 milioni si sono imbattute in modo frequente in forme e contenuti che incitano all’odio. Altri 14,5 milioni hanno intercettato, sporadicamente, tali espressioni.
Complessivamente quasi 25 milioni di persone hanno avuto a che fare con post, commenti in blog, cinguettii, immagini, video intrisi di odio, infarciti di violenze verbali, denigrazioni, offese, insulti, espressioni sessiste o razziste ecc.
I dati emergono da una recentissima ricerca realizzata da SWG per conto di Parole Ostili (progetto di sensibilizzazione contro l’ostilità delle parole in Rete e nei media).
La portata del fenomeno si evince con chiarezza dalle valutazioni dei mille internauti intervistati.
Per l’86% delle persone l’odio nel web è un fenomeno esteso (percentuale che sale al 91% tra quanti fanno un uso intenso della Rete) e per l’88% dei web surfisti è una pratica grave e socialmente pericolosa.
A essere maggiormente contrariati e irritati sono i Millennials (91%), seguiti dalla Generazione X (87%) e dai Baby boomers (82%).
La disseminazione di forme di hate speech non è il solo tratto barbarico che incontriamo nel web. Negli ultimi anni abbiamo assistito al fiorire di nuove forme di persecuzione personale: dal cyberbullismo al cyberstalking (con il loro portato persecutorio, di alterazione della vita quotidiana e della serenità delle vittime); dal revenge porn (con la diffusione online d’immagini intime o di rapporti sessuali senza il consenso o per punire una persona), al sexting (l’invio di email, messaggi e altro, con materiali a sfondo sessuale), fino all’infido grooming online (l’adescamento di minori).
Delusione, imbarazzo, paura di fronte alla violenza verbale
Le categorie del male prolificano facilmente e prontamente, avrebbe detto il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Insultare, denigrare, calpestare la dignità delle persone, insidiare e irretire sembra essere diventato uno sport per molti.
Le vittime predestinate delle multiformi valanghe d’insulti sono, ovviamente, le persone più deboli, i soggetti percepiti come diversi, le donne (con l’aggiunta dei politici, per completare l’opera di estrinsecazione della rabbia). Secondo gli internauti nostrani, infatti, le principali vittime d’insulti e attacchi sono i migranti (32%), i politici (30%), i gay (30%), le donne (27%), le minoranze di vario genere (21%) e i musulmani (15%).
Gli argomenti su cui s’innescano, con maggior facilità, dinamiche offensive o denigratorie sono la politica e l’economia (51%), gli immigrati (47%), i temi di sesso e relazioni di coppia (34%), senza dimenticare e sottovalutare la capacità “produttiva” delle tifoserie.
Lo hate speech non lascia indifferenti le persone. A fronte di una quota neanche troppo minoritaria che sorride o sogghigna su determinate manifestazioni d’intolleranza, altri avvertono disagio e fastidio. A metà del Paese (51%) gli insulti e le denigrazioni generano una sofferente sensazione di fastidio (la quota sale al 56% tra i Millennials); al 36% innescano moti di rabbia (42% tra le donne) e al 32% inducono una dimensione di tristezza. Delusione, imbarazzo e, non da ultimo, paura, completano il quadro delle reazioni alle forme di hate speach. Il senso di avversione e il voltastomaco restano fenomeni perlopiù silenti. Non sempre le voci di protesta si levano contro i dispensatori di odio. I fattori che rendono difficile il levarsi delle proteste contro queste forme di aggressione e contro i vari repertori barbarici, sono molteplici.
C’è, sicuramente, la paura di esporsi, di diventare vittime di questi profanatori della convivenza civile. Pesa la sensazione di essere isolati, di non avere il sostegno di provider e gestori dei social network, ma anche dei propri follower.
Conta la tendenziale assuefazione all’odio, all’uso della denigrazione dell’altro, come forma di affermazione di sé. A rendere complessa la reazione, tuttavia, è anche un altro elemento: il profilo standard del novello disseminatore d’odio. Non ci troviamo di fronte a fantomatici personaggi che vivono e operano nell’antro del loro scantinato esistenziale, rannicchiati dietro lo schermo del loro computer, nascosti dall’anonimato della rete.
Dal razzismo alla denigrazione, corre in rete la banalità del male
Ci troviamo, spesso e volentieri, di fronte a persone conosciute. Il 15% dei websurfisti intervistati afferma che nella sua rete di parenti, amici, ci sono persone che creano o divulgano contenuti d’odio.
Stiamo parlando di una platea di 4,6 milioni di soggetti. Un altro 15% testimonia che i disseminatori sono presenti nella sua rete di contatti sui social. I diffusori d’odio hanno, quindi, un nome e un volto. Sono persone che fanno parte della nostra cerchia ristretta, del nostro parco di contatti e follower; sono individui con cui ci s’incontra, si scambiano immagini, foto, commenti; con cui si condividono momenti, racconti e sensazioni personali.
L’arena del web produce condivisione, senso di reticolarità, connessione con gli altri, libertà di espressione, ma genera anche un sentimento d’impunità, uno spazio in cui il senso di civiltà opera a scartamento ridotto. Il web scatena, a volte, il peggio di alcune persone.
Libera la bestia che è in loro; la loro voglia di potenza, il bisogno di sentirsi superiori all’altro, a chi è differente. Dietro lo svolazzare d’insulti e sentimenti d’odio c’è, sovente, un tratto ben più dozzinale: la voglia di esibirsi, di mettersi in scena, di mostrarsi duro e puro. L’insulto, la denigrazione, l’uso di espressioni violente, sessiste e razziste, ci riconducono, tristemente, alla perdurante potenza della banalità del male (per dirla con le parole di Hannah Arendt).
Ci disvelano quella forma perniciosa (purtroppo ripetuta nei secoli) di potenza disumanizzante, che alberga nel quotidiano, nell’essere comune.
Una fisionomia criminale generata dal vuoto delle idee, dai condizionamenti che provengono da frange della società, dalla mediocrità che cerca di uscire dall’anonimato e non trova più confine fra che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. “Nessuno – diceva Nelson Mandela - nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare”.
Un monito che ci aiuta a dare valore e importanza alla necessità di combattere, arginare, isolare i disseminatori di odio. Un compito che non riguarda solo il legislatore e le forze dell’ordine, ma coinvolge e interroga la coscienza di tutti e in primo luogo richiama all’impegno chi gestisce social network, blog o spazi web. La rete è ormai parte del nostro essere civiltà e non può diventare una giungla.